lunedì 29 dicembre 2014

GEOGRAFIA DI UN CORPO

GEOGRAFIA DI UN CORPO
Santo Barbaro
- diNotte Records - 2014
 
Capita che raggiunto l'apice ci si voglia ritirare. È una costante di tutti quegli sportivi, consapevoli e lungimiranti, che prima di imboccare il viale del tramonto preferiscono chiaramente godersi una volta ancora un ultimo trionfo e l'applauso del pubblico. Appagati, di loro non si sentirà poi più parlare per il resto delle nostre vite. Ma un apice non necessariamente è sempre sinonimo di celebrazioni e positività. A volte è molto più drasticamente la misura colma che ci sfianca e sfinisce; il punto oltre cui pazienza e lucidità ci obbligano a fare marcia indietro, fare il punto della situazione e decidere di percorrere altre strade. Accade però che la necessità di tornare sopravviva in noi a lungo, sia più forte delle nostre antiche convinzioni e bussi con forza a quella porta chiusa frettolosamente per riportarci sui nostri stessi passi. Nel caso dei Santo Barbaro succede che siano le canzoni ad aver premuto urgentemente dentro l'animo del fondatore del progetto Pieralberto Valli, ed è accaduto che lo sventurato non abbia saputo opporre resistenza. Buon per noi! Concepiti come quartetto, rinati in trio, reinventatesi come duo, i Santo Barbaro sono ora un vero e proprio ensemble polimorfo, fucina allargata di musicanti romagnoli provenienti dalle più svariate estrazioni musicali che ruotano in maniera multidirezionale attorno allo stesso Valli, cardine e motore mobile fin dalle origini, in compagnia di quell' agitatore musicale, nonché alter ego musicale, che risponde al nome di Franco Naddei. Il nuovo GEOGRAFIA DI UN CORPO, uscito a distanza di soli due anni dall'impegnativo NAVI, originariamente pensato come capitolo conclusivo del progetto, si rivela essere così un lavoro di insieme che nella rifrazione di ogni singolo elemento sonoro suonato, nella peculiarità di ogni parola scelta, nell'importanza di ogni minimo particolare fissato su nastro restituisce una densa amalgama incisiva su cui si riflette la totale libertà espressiva concessa ai musicisti. Inutile fare paragoni con il passato: la cesura netta che il nuovo lavoro impone lo colloca di diritto nel presente, come nuovo inizio tutto da scoprire. Con una prosa fratta e frammentaria, per sua natura ricca di rimandi letterari ed iconici, non viene a mancare la poeticità dell'attimo; esemplare la composizione della lunare Ti Cammino Dentro in cui è evidente come la penna arrivi sempre prima del microfono. Spontaneamente. Generosa, ma mai ingenua. Difficile trovare poi una linea guida univoca in questo lavorare per sottrazione e addizione, sfruttando i vuoti tra le note e in essi costruendo il momento successivo che alla robotica post punk, meccanica e marziale, restituita dal primo singolo Lacrime Di Androide fa seguire il folk noir di Pavlov scombinando ogni altra coordinata prima di precipitare nell'oscurità fluttuante del proprio io emersa in Zolfo. Fulgide rasoiate no wave convivono così con vellutati mantra esistenzialisti; ortodossie aggressive subentrano a riflessioni scarne e liquide. I Santo Barbaro sono tornati e in due giorni di registrazioni presso il Cosabeat Studio hanno saputo dare nuovo valore alle cose e a loro stessi, mostrando il freddo e la solitudine delle periferie dell'anima, ma anche la complessità e la centralità del corpo, veicolo, strumento incapace di risalire ad una redenzione libera da dogmi e ideologie, indispensabile alla creazione. Non credo agli uomini, ma vado avanti.

giovedì 25 dicembre 2014

...SI ASPETTA L'INVERNO...

...SI ASPETTA L'INVERNO...
ManzOni
- autoproduzione - 2014

Ho capito che questo è il tempo dei commiati. Non una lacrima deve scendere; solo il cuore potrà liberamente piangere. Ma più avanti, in un altro momento. Gli spiriti affini che non hanno una provenienza geografica comune né tantomeno secondi fini, si intendono con poche parole e pochi sguardi. Sanno cogliere nel dettaglio l'essenza dell'universalità. Si capiscono e si rispettano. Non si curano delle apparenze, ma badano al sodo. Osservano. Si interrogano. Riflettono. E restano affascinati dalla vita. Sempre. Qualunque cosa essa riservi. ...SI ASPETTA L'INVERNO... non è una resa. È anzi l'ennesima risposta veemente ad un bisogno naturale di guardare oltre l'orizzonte sensibile. È il grido forse non così rabbioso come un tempo, ma incommensurabilmente più forte e diretto. È la sete di verità che brucia la gola. Chi si ferma troppo è perduto; per questo noi siamo sempre in viaggio. Più passano i giorni, i mesi, gli anni, più nostro malgrado diventiamo i protagonisti del tempo che fugge. Lentamente intorno a noi scompaiono sorrisi cari e volti familiari. Dopo pochi giri di ruota ci ritroviamo in prima fila, soldati scelti di una guerra persa in partenza come tutti coloro che ci hanno semplicemente preceduto nel viaggio. È allora che ci inganniamo. Quando crediamo di combattere il Nulla riscaldandoci di fronte a un buon bicchiere di vino in compagnia; nei racconti con gli amici dopo essere andati per funghi; nell'animosità delle discussioni politiche e delle diatribe religiose; di fronte alla bellezza di un amore, eterno solo fino a quando non morirà. È questa la vita già immaginata tanto tempo fa da tutti. Non siamo impreparati: semplicemente, lottiamo nell'illusione di un finale diverso che non verrà. Più strumentale rispetto alle precedenti uscite il terzo album manzOniano racconta la vita nel suo aspetto più crudo e umano insieme, travolgente nel canto che non soccombe alla distorsione delle chitarre, ma che sa adeguarsi alle circostanze sparendo se e quando necessario. L'assenza di Ummer Freguia si sente, ma è una sorta di ritorno al passato, funzionale come sempre alla buona riuscita del lavoro finale della band. Una band che concede emozioni e stupisce anche quando butta le ultime fertili sementi. Il palloncino rosso che tanto ci aveva fatto sognare è ormai un punto lontano nel cielo terso di questa pungente giornata dicembrina infatti; la leggerezza del suo stato non è più parte di noi. Un brivido mi assale alla lettura dello scarno comunicato stampa che accompagna questo ...SI ASPETTA L'INVERNO.... Mentre le note e le parole di Vittorio accompagnano immagini d'altri tempi aggiustiamo la respirazione dopo un'ultima scarpinata fatta a pieni polmoni su nel bosco. È il regalo di Natale. E il saluto definitivo di una grande band. Si resta sempre così, senza parole davanti a quelle passionali di Tenca e rispetto a quanto espresso visceralmente dai ManzOni. In loro c'è tutto quello che va ricercato nella Musica. Quella vera, schietta e sincera. Alta, ma vicina agli strati più bassi e concreti dell'uomo; universale nella sua quotidianità. Brividi, brividi, brividi. Non possono essere gli ultimi. Anche per noi che non ci saremo.

mercoledì 24 dicembre 2014

SANGUE - EP

SANGUE - EP
Orfeo
- autoproduzione - 2014

La ricerca di un equilibrio anche precario che sappia tuttavia offrire quella stabilità in continuo movimento cui Federico Reale tende non è meta così impossibile da raggiungere. È questa la conclusione a cui si giunge dopo essersi approcciati con la mente libera da pensieri e preoccupazioni alle cinque canzoni contenute nel suo ep d'esordio SANGUE. Lo canta proprio l'alter ego di Federico, quell'Orfeo pensante dietro cui si cela un mondo per nulla semplice, fatto di complessità e macchinose sovrastrutture, il più delle volte incomprensibili quando non dannose, lontano dalla purezza originaria del Creato e imbastardito dalle convenzioni. Lo canta dunque un ragazzo che dalla provincia di Milano avanza in mezzo alla bolgia del cantautorato nostrano in punta di piedi, armato di chitarra, molte idee e buone intuizioni: lo stretto necessario per lasciar parlare a briglia sciolta la propria anima e, in seconda battuta, quella di chi ha vissuto una storia, non importa quanto vicino o lontana nel tempo, che ha però il pregio di riflettersi in quella di decine di altre persone, immancabilmente speculare nella sua universalità a tutte le latitudine del mondo, assecondandone i risvolti più intimi e rivelandone il meccanismo che le ha prodotte. Fin dalle prime considerazioni contenute nell'opener Neve è chiaro che attraverso un cantautorato rock a tratti crepuscolare e malinconico, ma pur sempre netto e lineare, sono stupore e disillusione a rincorrersi, ora distanziandosi definitivamente ora fondendosi in un abbraccio vitale che pare non avere mai fine. E scopriamo così che l'amore viaggia sicuro su una strada sola;  a tendergli trappole sono i tanti bivi a cui viene messo davanti mano a mano che il viaggio procede. Ma anche quando la scelta si rivela errata essa diventa nuova opportunità di corsa, bicchiere mezzo pieno da cui attingere acqua salvifica, energia per ripartire, stimoli per andare oltre l'iniziale smarrimento. Lo scorrere del tempo evocato anche dall'arpeggio pizzicato che introduce Quella Triste è la medicina invisibile e gratuita per la cura di tutti i mali; anche quelli del cuore, ricchezza che non si vende, non si compra, ma si regala, come ci ricorda il poeta. Lo sapeva Battisti, l'ha intuito Vasco Rossi, ce lo hanno ricordato e messo in pratica in tempi recenti Bugo e Dente. Malinconico, ma non ripiegato su sé stesso Orfeo ha saputo convincere delle proprie potenzialità Federico Bortoletto e Filippo Corbella, titolari del Blend Noise Studio nonché musicisti e co-arrangiatori di SANGUE, in questa sanguigna corsa poetica dall'appeal popolare su cui si può investire ad occhi chiusi nel prossimo futuro. La città corre veloce; altrettanto velocemente prende e lascia. Solo le macerie dei nostri cuori restano al loro posto. Muri da abbattere per poter costruire di nuovo. A partire da una idea.

giovedì 18 dicembre 2014

VIA DEL PARADISO GRANDE

VIA DEL PARADISO GRANDE
Autoscatto
- TdE Music Production - 2014

Per entrare in perfetta sintonia con la proposta musicale degli Autoscatto bisogna scendere a patti con l'apparente ostacolo vocale che ne caratterizza anche la cifra stilistica. Quella di Alberto Neri non è infatti la classica voce impostata, dedita magari al bel canto strappalacrime che oggi va tanto di moda in tivvù e non solo, piegata alle esigenze di un successo immediato molto redditizio, ma poco decoroso in fin dei conti per la propria autostima; piuttosto, è una voce libera, irriverente e bizzosa, aspra, a metà strada fra il miglior Marcello Cunsolo (Flor) e il tenace oSKAr Giammarinaro (Statuto) con una vaga corrispondenza de li Castelli legata a quel tanto bistrattato Stefano D'Orazio che della meteora Vernice fu per qualche anno l'uomo immagine. Una voce dunque poco spendibile nei grossi circuiti mediatici, eppure in grado di catalizzare l'attenzione proprio perché esposta senza filtri; malleabile nella sua sgraziata irregolarità e a proprio agio per i sentieri sonici di quella VIA DEL PARADISO GRANDE che è esordio discografico per gli Autoscatto, attuale band del navigato Neri dopo le esperienze con Neurodisneyland, Family Café Bizarre e Wild Company, e nuovo racconto in musica ideato, concepito e infine rilasciato nelle piane della sempre vitale Valle d'Aosta fra echi post new wave e ritmi esistenzialisti anni '90. Non necessariamente il più bello fino ad ora realizzato, ma sicuramente ipnotico e sentito. L'incontro con Simone "Momo" Riva è il passaggio risolutivo per fissare concretamente le idee messe in circolo dalla band negli ultimi due anni, trovando nella variegata sezione ritmica composta dal bassista campano Vincenzo Di Leo e dal drummer romano Cristiano Cara il terreno fertile per le schitarrate livide di Josy Brazzale (altro nome storico della scena valdostana). Ne esce una carrellata di istantanee ancora in divenire, polaroid dai toni algidi, non ancora perfettamente a fuoco e perciò suggestive, come quando si affidano ai funzionali fiati di Daniele Iacomini nella cover dei The Sound Non So Stare (Lontano Da Te) che riporta alla mente gli inarrivabili croati Pips Chips & Videoclips; intense, nel momento in cui abbandonano la metrica cantata e si affidano al recitativo (la declamatoria Mazara Del Vento che omaggia Mimì Clementi e i Massimo Volume); ipnotiche, come si rivela essere la Via Del Paradiso Grande preceduta da una introduzione strumentale tracciata dall'acustica spersonalizzante di Brazzale. A tal proposito menzione speciale se la guadagna Jöelle Zaninelli, opportuno contraltare vocale per Neri nella title track a tinte noir di cui sopra e nel sordido pop rock di Jukebox, tra i pezzi meglio riusciti del lotto, con gli U2 nel cuore e Battiato nella memoria. Di contro, ecco la speculare circolarità di rabbia contenuta che pervade C.D.A. e il freakantoniano punk Quando Ero Normale, non troppo avulso dal contesto, ma  comunque inatteso e a tratti prescindibile. La strada per il Paradiso è lunga e faticosa, ma bisogna crederci: solo i bravi ragazzi dalle buone intenzioni sono infatti destinati a cadere e farsi male. La sensazione è che tutte le tracce abbiano la giusta stoffa per crescere in irrequietezza, potenza e volumi in sede live, quando gli Autoscatto - attraverso il loro frontman - intercettano pure una dimensione teatrale appropriandosi di una opportunità emozionale da cui ripartire anche in futuro. Passo dopo passo.

mercoledì 17 dicembre 2014

l'intervista

NEL CUORE DEL KAOS
 
Tra le proposte più avvincenti dell'ultimo anno solare i SYK sono la sfida all'ozio che ottenebra la mente e riduce all'immobilismo. Autore di un debut album come ATOMA che ha saputo catturare l'attenzione a livello europeo nell'ambito della musica estrema per le sue continue e intense contaminazioni sonore e metalinguistiche, l'attuale trio nato dalle ceneri dei devastanti Psychofagist e dall'incontro con la sperimentatrice vocale Dalila Kayros, è trampolino di lancio per un nuovo corso e la risposta concreta ad una domanda di ricerca e sperimentazione capace di andare al di là di ogni barriera di genere. A poco più di un anno esatto dallo scioglimento della precedente band abbiamo incontrato il poliedrico Stefano Ferrian per fare il punto della situazione. Quando il buio della notte è ormai alle spalle e l'alba di un nuovo giorno sta per sorgere.


Perché mai un appassionato di musica dovrebbe avvicinarsi ai SYK? Come si è originato il vostro connubio artistico? 
steF: Beh, diciamo che è una difficile questione per vari aspetti. Da un banale punto di vista biografico secondo me il progetto ha i presupposti per essere interessante. Dal punto di vista musicale col secondo disco si entrerà in toto nella vera visione della musica che questo trio può esprimere. ATOMA è stato il Big Bang al quale non può che susseguire un evoluzione, quindi sarei felice se le persone lo ascoltassero prima del nostro prossimo lavoro. Il nostro connubio artistico ha preso forma nell'ottobre 2013, in quello che è stato l'ultimo tour di quindici anni di Psychofagist e mentre Dalila Kayros ci faceva da opening band. Tra l'altro è stato un vero e proprio ciclo, anche perchè la seconda metà del tour è stata conclusa a Psychofagist ormai sciolti, quindi solo con il sottoscritto e Federico "DucaConte" alla batteria. L'occasione dunque ha creato il progetto perchè ricominciare con qualcosa di nuovo, insieme a Dalila e a un amico musicista come Federico con cui ho praticamente passato gli ultimi sei anni di vita girando mezzo mondo, è stata una nuova rinascita artistica. Forse un naturale rinnovamento per tutti, per ripensarsi con una musica differente dalla precedente offerta, ma comunque nostra al 100%.
 
Il vostro è, anagraficamente parlando, un gruppo sostanzialmente giovane eppure già alcuni cambi di organico ne hanno modificato l'assetto originario: quale credi sia l'attuale punto di forza della band?
steF: Allo stato attuale direi l'affiatamento dei membri del gruppo. Sembra un paradosso, ma è così anche se ci hanno già lasciato due persone per motivi personali - e seri - differenti. Quindi, al momento, abbiamo deciso che anche in tre possiamo andare avanti benissimo. Per il resto la forza è la voglia di fare musica anche se le prospettive ora sono differenti per me; l'incoscienza di fine anni '90 è andata, ma sono convinto ci siano ancora tante idee valide da mettere in gioco e l'esperienza fatta in tutti questi anni di lavoro non può che tornarci utile.
 
Parlando del vostro debut album, innanzitutto osserviamo che si è alla vigilia di un bel po' di date italiane a supporto di ATOMA: è difficile riprodurre on stage lo stesso suono stratificato del disco?
steF: Non voglio essere ipocrita e ti rispondo "sì". Questo perchè, non sapendo al tempo della fase compositiva del futuro abbandono di Luca (Pissavini - ndr) al basso, i brani si basano su riff poliritmici dove proprio il basso si va ad incastrare in maniere ben definite tra chitarra e batteria. Ergo, senza basso il risultato è diverso, ma secondo me comunque più diretto e in your face. Dal vivo poi i brani sono tendenzialmente più veloci e aggressivi. Forse il risultato è un po' diverso, ma personalmente credo anche inaspettatamente migliore.
 
 
Da un punto di vista musicale cosa volevate ottenere con questo primo lavoro? Nel suo inevitabile superamento della "formula" Psychofagist credi sia stato messo sempre tutto a fuoco?
steF: Ho vissuto il progetto come una nuova entità dall'inizio quindi nessun problema a cominciare qualcosa di nuovo con i SYK. Con musicisti differenti in gioco è inevitabile creare qualcosa di profondamente diverso, anche se in questo caso abbiamo cambiato solo un componente. Sicuramente ATOMA rimane il nostro primo album con tutti i pro e i contro di un primo disco. Probabilmente la vera messa a fuoco si farà col secondo, già in fase di lavorazione.

Possiamo considerarlo un concept album a tratti trasparente a tratti esoterico, quasi per iniziati?
steF: Non saprei sinceramente. Di sicuro è un disco musicalmente e liricamente complesso che ci è costato mesi di lavoro quotidiano. È lo specchio del periodo appena passato, fatto appunto di tante cose. Premesso che il fulcro di tutto per noi è sempre la musica, ciononostante l'aspetto concettuale del disco è denso di tanti argomenti. Come tutti i dischi può avere tanti livelli di approccio diversi. Si può ascoltare solo la musica o ci si può concentrare anche sul concept. La differenza è data dalla curiosità dell'ascoltatore in quel momento. In assoluto tuttavia non lo considero un album da iniziati: chiunque può ascoltare quello che facciamo e allo stesso tempo persone differenti trarranno concetti differenti. Non abbiamo intenzione di settorializzarci in qualche filone o ancor meno rientrare in qualche culto particolare. Siamo semplicemente persone curiose e gli interessi di tutti i membri contribuiscono al risultato finale. Per alcuni membri del gruppo il lato esoterico e paranormale della vita ha una sua importanza. Di Dio e Satana però non ce ne importa nulla; siamo persone pratiche e non diamo troppa corda a storielle trite, ritrite, modificate e corrette in mille modi diversi. Le religioni e le anti-religioni (che poi si rivelano essere l'altra faccia della stessa medaglia) non ci interessano se non dal punto di vista crudamente documentativo. Alla fine siamo ricercatori e ci approcciamo all'argomento senza troppe suggestioni o folklore. Ci teniamo che le persone si approccino al disco con la propria testa. Ancora meglio se tra le persone che lo ascolteranno ci saranno liberi pensatori, per quanto liberi si possa essere su questo pianeta ovviamente.
 
La scelta di una Babele linguistica è a mio avviso, seppur apparentemente ostica, un veicolo utilissimo e naturalmente condivisibile per trasmettere ricchezza di intenti e contenuti. Cosa ne pensi?
steF: Dal nostro punto di vista l'aspetto linguistico è stato veicolo per studiare, anche superficialmente, culture e civiltà lontane dalle nostre. Esperienza che sicuramente ci ha arricchito. Molto spesso Dalila lavora anche su testi basati su fonemi inventati da lei. In questo caso specifico ci si concentra sul suono e talvolta la suggestione che un fonema può creare, vista sotto quest'ottica la lingua offre infinite possibilità. Spesso la stesura di un testo basato su fonemi richiede il doppio del lavoro di un testo normale, ma apre un mondo molto più radicale e sanguigno. I testi ci sono costati sicuramente lo stesso impegno che ha richiesto l'aspetto musicale della composizione.


Quanto credi abbia influito la provenienza geografica della band sul mood di ATOMA o comunque su quello del prossimo album?
steF: Penso che inevitabilmente la provenienza geografica, ma più in particolare il contesto, influenzino il mood di una persona. Certo è che quando si pensa a un concept si deve però avere anche la capacità di estraniarsi in qualche modo dal contesto se si vuole davvero approfondire l'argomento. Durante la scrittura dei testi io e Dalila ci siamo praticamente immersi - su vari argomenti - sull'aspetto distopico della realtà. Questo sia in contesti reali che inventati; in fin dei conti la realtà di tutti i giorni vive di una discreta quantità di deformità e distopie. Quindi vanno bene i Sumeri, ma anche i romanzi della collana Urania, film e documentari sull'argomento, letture, ricerche linguistiche, ricerche astronomiche e di correnti fanatico-religiose, la teoria della terra concava...; insomma, una marea di informazioni digerite e poi rigurgitate in ATOMA dove, in qualche modo, abbiamo immaginato di scrivere la nostra storia per un romanzo dell'Urania. Tutto questo però, inevitabilmente, in un contesto ben preciso come quello in cui viviamo.
 
Italiani, ma con un occhio e due orecchie sull'Europa e sul mondo: quali sono le soddisfazioni che fino ad ora potete dire di aver avuto?
steF: Al momento di soddisfazioni così grosse non ne abbiamo avute nonostante tutto il lavoro fatto, ma...chi lo sa?! Nel mio piccolo mi ritengo fortunato di aver girato Europa, Russia, Siberia e Israele con svariati progetti e in contesti molto diversi. Quello che ti rimane da tutte queste esperienze è una visione più "globale" della vita e del mondo. Questa esperienza affrontata con occhio critico è stata preziosa e spesso diventa un handicap in conversazioni con gente che ha viaggiato qua e là, ma solo per turismo e che torna a casa più o meno con gli stereotipi con cui è partita. Quindi al momento la soddisfazione più grossa sta nel fatto di aver avuto l'occasione di vedere le differenze che convivono su questo pianeta. A volte è un'esperienza che ti arricchisce, altre volte è avvilente. In entrambi i casi utile a farsi un'idea propria di quello che ci circonda. Inutile poi essere ipocriti: le differenze ci sono e non sempre sono belle. Un'altra bella soddisfazione è stata invece essere contattati di persona da un personaggio come Phil Anselmo per entrare a far parte della sua etichetta HouseCore Records. Ovviamente al momento pensavamo fosse un mezzo scherzo ma quest'estate siamo andati ad incontrarlo vicino ad Udine a un concerto dei Down e ci siamo dovuti ricredere. È stato assurdo vederlo cantare i nostri pezzi nel backstage parola per parola e ancora più assurda è stata la sua proposta di fare una jam insieme alla fine del suo concerto. Sicuramente una bella soddisfazione e speriamo di poter fare bene nel futuro grazie a questa inaspettata collaborazione.

Anselmo ha speso ottime parole su di voi, ma pure la carta stampata e gli spazi virtuali che la rete offre sono stati sostanzialmente concordi nel premiare il vostro lavoro. Sentite una sorta di pressione (anche positiva) nella scrittura del nuovo album? Quali aspettative nutrite in proposito?
steF: Non so se posso parlare a nome di tutti, ma personalmente non sto soffrendo la pressione del secondo disco. In fin dei conti non abbiamo grandi cose da perdere al momento, anzi al massimo potrebbero solo migliorare. Da parte nostra ci metteremo come al solito tutto noi stessi. Del resto parlando dei SYK penso sia più facile fare il secondo album; in generale, le uscite discografiche dei singoli membri della band sono infatti abbastanza numerose. Disco dopo disco, progetto dopo progetto l'esperienza aumenta e tutto ciò si riversa automaticamente in ciò che facciamo insieme. Sono convinto che con questo progetto si possano fare davvero belle cose in futuro.
 
 
Oggi la musica estrema è forse quella più aperta alle contaminazioni di genere e alla sperimentazione. Quale direzione stanno prendendo i nuovi pezzi?
steF: Il secondo album sarà decisamente più aggressivo di ATOMA. Non saprei dirti dove stiamo andando, ma sicuramente ci sono parecchie influenze estreme e molto sperimentali anche se idiomatiche. Posso anticipare che si tratterà di un disco mediamente veloce e nel complesso più pesante. Credo anche più complicato e ricco, ma contemporaneamente più in your face del suo predecessore.
 
Capitolo a parte merita Dalila Kayros: con quanta naturalezza si è inserita nell'organico del gruppo?
steF: Come ho accennato prima, il tutto è avvenuto abbastanza naturalmente. Sicuramente le prospettive di un nuovo progetto insieme si erano già palesate nell'ultimo tour degli Psychofagist, dove appunto Dalila faceva da supporto. Ancora prima di quello l'avevo contattata per occuparsi delle parti vocali del terzo disco del mio personale progetto dE-NOIZE, condiviso con Carlo Garof e Antonio Bertoni dei Tongs, purtroppo ancora in attesa di pubblicazione. In quell'occasione avevo avuto modo di misurarne il talento e la professionalità con cui si approccia alla voce. Dal punto di vista umano ci siamo trovati subito bene, dato non scontato quando si tratta di inserire qualcuno di nuovo in un gruppo dove due elementi hanno già condiviso svariate esperienze insieme. Personalmente SYK al momento è un po' un'altra famiglia per noi e speriamo che le cose mantengano questa piega a lungo.
 
Che significato ha per voi comunicare attraverso la musica? 
steF: Credo sia semplicemente un'esigenza, qualcosa che necessitiamo fare. Spesso la lingua è carente a rappresentare tutto quello che un essere umano può contenere e ancora più spesso è il primo veicolo per condizionare la mente delle persone. La musica è un mezzo di comunicazione più completo e se sfruttato bene può creare suggestioni profonde. Per noi la comunicazione è la prima cosa e in musica, come in letteratura, spesso pensi quello che sei in grado di dire e viceversa. Se il mondo fosse meno ignorante sicuramente riuscirebbe ad esprimere concetti e idee più profonde invece di unirsi a religioni o correnti di pensiero preconfezionate e distribuite su larga scala come fossero medicinali da banco.
 
Andrea Barbaglia '14

lunedì 15 dicembre 2014

PRISMA

 PRISMA
Plunk Extend
- QB Music - 2014

Sembra un ep. In realtà trattasi di album d'esordio. Nei suoi ventitré minuti di durata massima PRISMA ha l'arduo compito di descrivere ad un pubblico possibilmente più esteso di quello raggiunto con le precedenti pubblicazioni su breve distanza l'essenza dei Plunk Extend, quintetto milanese già artefice in passato di un variopinto (indie?) rock dalle sfumature piuttosto variegate quando non ancora incerte. Dopo gli anni dell'incoscienza e del disimpegno, dediti ad un suono di facile fruizione capace di spaziare su diversi fronti, il tentativo di seguire una direzione più compiuta dà il la ad una maturazione anche espressiva che già il precedente, ma frammentario, MARVELLOUS KALEIDOSCOPE ROLLERCOASTER aveva lasciato intravedere. Con la realizzazione ora del debut album i fratelli Cetrangolo, Daniele e Lorenzo, la sezione ritmica Montagna-Pontremoli e le chitarre elettriche di Andrea Tedesco tentano la carta della compattezza di intenti non priva di una naturale scomposizione sonora dovuta alle differenti radici di gusto e genere da cui ciascuno dei componenti proviene e ha nel suo bagaglio culturale. I cinque brani che costituiscono l'essenza di PRISMA sembrano riflettere così non solo alcune caratteristiche del dato colore preso in esame, ma proprio le dinamiche interne al cd e quelle più personali degli stessi musicisti, rappresentative di sé e del collettivo tutto. Se l'opener Blu è canzone sulla libertà della mente, sul potere della fantasia, sul valore del viaggio e vede testimonial ultimo il già citato vocalist Lorenzo Cetrangolo, il susseguirsi di Nero (il fratello Daniele), Bianco (Pontremoli), Rosso (Tedesco) e Verde (Montagna) cerca una unitarietà di fondo incapace di rinunciare a singoli impulsi, naturali deviazioni, immaginifici stimoli, muovendosi su un terreno mobile in costante equilibrio tra pop e psichedelia. Nessuna singola entità monocromatica sembra prevalere sulle altre, ma riflette di comune accordo tutti quei rifugi della memoria che via via affiorano tra le liriche delle canzoni, rispondendo ad una esigenza dell'anima che accomuna la band. Assecondando questa naturale propensione risulta più facile autodeterminarsi una identità solida da cui ripartire e sulla quale costruire nel prossimo futuro un racconto maggiormente articolato. Al momento ai giovani milanesi riesce piuttosto facile evocare in maniera libera contraddizioni e illuminazioni,  bellezze e stordimenti dell'essere umano come se si trattasse di una porta d'ingresso su un mondo caleidoscopico che è dentro tutti noi e che da qualsivoglia prospettiva venga osservato si rivela essere ricerca infinita, rifratta e sensibile. L'auspicio è che il punto di partenza non sia punto di arrivo, ma puro slancio per un sequel in grado di toccare il generale partendo dal particolare. Una indicazione di massima che non rifugge mai imprevisto e visionarietà, ma semplicemente ne amplifica il messaggio e la durata temporale.    

venerdì 12 dicembre 2014

FAILING

FAILING
Miriam in Siberia
- autoproduzione - 2014

A quasi una decade dalla loro costituzione i campani Miriam in Siberia giungono in questa anomala fine anno al terzo, agognato, album. È opinione sempre più diffusa che di rock band in grado di smuovere grandi masse in un futuro prossimo venturo non ne nascano più in Italia tra le nuove generazioni. A guardare innanzitutto le classifiche di (non) vendita, il numero di presenze a singoli eventi live in cui nomi comunque affermati riescono a malapena ad andare in pareggio con le spese vive, osservando in seconda battuta una certa disaffezione culturale verso ciò che invece è sconosciuto e diversamente propositivo, sembrerebbe che il pessimismo realista di questi osservatori interessati fotografi in pieno lo stato dell'arte del momento. Poi ti capitano fra le mani lavori come questo FAILING, cinque brani cinque, poderosi e taglienti, capaci di cavalcare l'onda lunga di stoner, hard rock e psichedelia centrifugati con quell'attitudine volutamente lontana dalle mode del momento - ma proprio per questo sempre attuale - che ha caratterizzato la produzione migliore di, tra gli altri, Led Zeppelin e Motorpsycho, e più di una speranza si riaccende. Che il passaggio alla lingua inglese abbia giovato alla causa di Nando Puocci e soci è fuor di dubbio. Dalla title track alla conclusiva Don't Anyone ciò che si percepisce è la giusta quadratura del cerchio dopo gli esordi abbastanza anonimi de IL SUONO DEL PHON e la prima svolta sonora caratterizzante il successivo VOL.2. Un florilegio di immagini, suoni e suggestioni che si susseguono senza soluzione di continuità, riportando alla mente vibrazioni antiche e sollecitazioni maggiormente contemporanee, accomunando la compattezza dei Black Sabbath alle sperimentazioni dei Verdena, le dilatazioni degli Earth alla vorticosa fragorosità dei nostri Ufomammut fino a ripescare dal proprio retaggio culturale, giusto per restare in tema con i luoghi di origine della band, addirittura gli echoes di quegli immaginifici Pink Floyd aggiratisi tra le rovine di Pompei e Pozzuoli oltre quarant'anni fa. Senza perdere mai di vista un innato gusto per quella melodia spigolosa che trovò nella coppia Staley-Cantrell uno sbocco quasi naturale e che oggi viene replicata dai Miriam in Siberia in più occasioni, come ben si evince dalla tortuosa Down From a Mountain, su cui peraltro si innestano tastiere anni '70 di matrice progressiva - altra costante del lavoro - e dalle linee vocali di We Wanna Know. Tutto questo per ottenere un fascinoso space-rock che lentamente, ma in maniera sistematica, allontana da una situazione di ripiegamento e chiusura mentale capace di atrofizzare le volontà prima ancora che le membra; una scossa di elettricità contro la staticità e la precarietà dei nostri giorni, una lotta a spada tratta per non soccombere di fronte ad una aridità di pensiero e azione ancora troppo diffusa. Un tentativo di reazione andato in tutto e per tutto a buon fine, che dà fiducia, addirittura consola, ma chiede di essere apertamente supportato affinché dei Miriam in Siberia non si perdano le tracce. Perché per resistere ed esistere non bastano - purtroppo - soltanto grandi idee e buona ispirazione. Ci contiamo. 

mercoledì 10 dicembre 2014

da PIETRAIA

PUPILLA
- Kabikoff - 2014

 
Regia, soggetto, fotografia e montaggio: Duilio Scalici
FX: Malte Lauridis Mosca
con Andrea Di Stefano e Carola Calandra

martedì 9 dicembre 2014

ROCA BÁSICA

ROCA BÁSICA
Rocío Rico Romero
- Liquido Records - 2014

A caratterizzare così fortemente l'avventura solista dell'eclettica Rocío Rico Romero è senza ombra di dubbio la produzione della sempre più propositiva Liquido Records, etichetta fondata a Bologna nel 2012 da musicisti di lungo corso della musica italiana, così funzionale nelle sue abituali armonie dilatate alle atmosfere rarefatte e incantate della compositrice italo-andalusa. Contenute nel loro DNA vivono infatti peculiarità ricettive elastiche al punto tale da essere in grado di appropriarsi non soltanto meccanicamente, ma anche emotivamente e concettualmente delle necessità espressive proprie di chi sta loro davanti, adeguandosi in maniera il più aderente possibile ad ogni singolo progetto su cui mettono occhi, orecchie e mani. Nel caso della signorina Romero qui in esame, su un substrato prettamente cantautoriale, interviene proprio questo caratteristico gusto liquido dei produttori che, pur mantenendo intatte le qualità vocali di Rocío ne trasfigurano la forza comunicativa indirizzandola - con egual potenza - su terreni fluidi, mobili, malinconicamente astratti e tremuli. È un modo di sentire che accomuna Vince Pastano, Antonello D'Urso, Max Messina e Ignazio Orlando i quali spesso e volentieri stendono questa mano di vernice sonoro-distintiva in modo uniforme, ma al tempo stesso misurato per trasformare proposte artistiche altrimenti circoscritte alla tradizione. È una peculiarità ravvisabile innanzitutto nei lavori in cui loro stessi sono i protagonisti - come il caso ad esempio del ben noto LIVIDI rilasciato in prima persona da Pastano - spesso spiazzando l'ascoltatore; e al tempo stesso viene utilizzata con gusto e attenzione, in costruttivo accordo con terzi, quando è il momento di offrire al di fuori del proprio territorio nuovi abiti per consolidate cerimonie. Fattisi loro carico perciò di questa piacevole incombenza, a Rocío non resta che esprimere in totale libertà la propria essenza, rivelando tutta la sua capacità vocale messa al servizio di un lavoro fatto essenzialmente di abbandono e sospensione. Abbandono al ricordo e sospensione dalle passioni, esorcizzate quando ancora accese, ma scientemente confinate nel reticolato geometrico della propria anima. Senza mai perdere il contatto con la realtà in ROCA BÁSICA confluiscono emozioni, ritmi e melodie antiche, il rielaborato di un vissuto che è nella mente prima ancora che nei gesti e nelle azioni quotidiane; vibrazioni di cui l'origine non è nota, ma che restituisce la  complessità dell'Invisibile. Come un anelito di vento che prima ci scompiglia i capelli, poi scompare di improvviso per tornare, infine, sfruttando i vuoti e gli spazi di quella stessa aria che attraversa il corpo umano e lo rende - nel canto - strumento fra strumenti. Una protagonista occulta quest'ultima, al servizio tanto della Romero quanto dell'elettronica analogica che contamina le mistiche visioni notturne di Isabel, l'afflato vitale dell'amore desiderato sgorgante da Soplo De Nube, la sua speculare delusione affrontata a testa alta in Punto Y Seguido, fino ad irradiare il trip hop della splendida Andalucía in cui emerge in tutto il suo splendore e inafferrabile essenza la voce da soprano della vocalist. C'è anche un piccolo cadeau cantato in italiano, quella Sono Fragile che nelle sue note sospese evoca nuovi mondi, ma al tempo stesso mette completamente a nudo l'essere umano che li desidera scoprire; rivelandone i contorni, ma proteggendone l'essenza proprio come fa la rugiada mattutina che imperla ogni cosa al nostro risveglio. Sono sufficienti trenta minuti per lasciare un segno indelebile nelle vite altrui? Rocío Rico Romero conosce la risposta.

martedì 2 dicembre 2014

LE COSE VANNO USATE LE PERSONE VANNO AMATE

LE COSE VANNO USATE LE PERSONE VANNO AMATE
Andrea Arnoldi e il peso del corpo
- autoproduzione - 2014

Perché voler essere sorprendentemente originali ad ogni costo? Perché voler necessariamente stupire la folla con effetti speciali? Per quale motivo alzare la posta in palio offrendosi poi al pubblico ludibrio? L'originalità spesso consiste nell'essere molto semplicemente sé stessi, senza folli soluzioni o scriteriate trovate. Quelle di Andrea Arnoldi, ad esempio, si limitano al solo nome scelto come ragione sociale, con quel peso del corpo retaggio di un passato fatto di "costante e personale revisione dei generi" oggi non completamente abbandonata, ma senz'altro più a fuoco e di conseguenza snella. Per tutto il resto la peculiarità del progetto del giovane bergamasco risiede infatti in un forte legame con la tradizione cantautorale italiana in grado tuttavia di confrontarsi con le soluzioni contemporanee adottate da colleghi più noti e riveriti, ma senza perdere in qualità e profondità. Con un cantautorato piano e una metrica chiara, lineare, non priva di qualche volo pindarico così naturale da non risultare mai fuori luogo, LE COSE VANNO USATE LE PERSONE VANNO AMATE rivela una capacità di procedere, leggero, sulla scia di quegli evergreen che hanno fatto storia tanto in Italia quanto all'estero innestando una postura folk minimale e, seppur mai enfatici, arrangiamenti  in grado di dare ampio risalto ad una sezione di archi e fiati come difficilmente capita più di ascoltare. Questo è l'asso nella manica di un cd riflessivo e realisticamente focalizzato sul presente e sulla sua ontologica incertezza. Ma anche il suo rischio. Perché neppure gli esponenti più navigati del nostro panorama musicale si sono arrischiati a tanto negli ultimi decenni quando si tratta di proporre brani inediti. Volendo commettere un azzardo la pietra di paragone più inaspettatamente vicina ad Arnoldi risulterà essere per chi scrive quel tanto vituperato Vasco Rossi che dell'irrisolutezza del quotidiano, della labile condizione umana e della precarietà individuale ha approfondito, sempre più negli ultimi lavori, la complessità. Qui ovviamente cadono i tonanti muri di suono eretti dalle chitarre elettriche e non c'è fortunatamente traccia alcuna di infelici pacchianerie elettroniche che hanno pregiudicato la riuscita di album interi; al loro posto  misurati interventi di viola, violino e violoncello che la fan da padrone, a loro volta contrappuntati da una serie di altri strumenti cordofoni e a fiato protagonisti di canzoni artigianalmente retrò in cui prevale proprio quel tono colloquiale, sollecito e diretto che a Zocca e dintorni conoscono bene. Ma c'è anche tanto Bubola, molto De André, l'intellettualità di Ruggeri, la smargiassa confidenzialità di Dente, la raffinatezza di Pacifico e perfino la rivoluzionaria operazione cameratesca operata da Le Orme sul finire anni '70; tutto questo per completare un rebus musicale complesso, non privo di ostacoli, e dunque a tal proposito più sentito e vivo, che è specchio artistico di un percorso psicosociale non comune. Una lettura a metà strada fra Bergman e Boccaccio su come va il mondo; in altre parole, una finestra da cui ritrarre la Morte come possibilità di rivincita-redenzione e l'Amore come unica àncora possibile di vita, non di sopravvivenza.

lunedì 1 dicembre 2014

INDIANA - EP

INDIANA - EP
Indiana
- autoproduzione - 2014

Chi cercasse un filo rosso capace di unire le sei tracce rinchiuse in quell'uovo di Colombo che si rivela essere questo caleidoscopico INDIANA dovrebbe pazientare un poco prima di giungere, in ultima analisi, alla lapalissiana soluzione finale. Non si cerchino chissà quali astrusi temi o fili conduttori mutuati chissà da quali narrazioni fantascientifiche. La semplicità è infatti l'anima che contraddistingue i nuovi Indiana e con loro le canzoni andate a definire l'omonimo secondo ep nel proprio personalissimo paniere musicale. Una semplicità che alla fine è facile cogliere tra le pieghe di loop sequenziali e sintetici campi sonori, tra folle e visionaria psichedelia anni '60 - con Beatles e Syd Barrett nel cuore - e una indole ottantiana rivolta allo shoegaze e al dream pop d'annata con un approccio articolato eppure votato a lasciare in un angolo l'aggressività preferendole piuttosto uno sviluppo dinamico che dia un equilibrio all'apparenza labile, ma, sulla lunga distanza, costantemente bilanciato. Sfruttando al meglio una strumentazione analogico-minimale e le caratteristiche del sintetizzatore, autentica arma di distrazione di massa capace di regalare suggestioni low-fi e surreali visioni di confine, il trio bergamasco sviscera un percorso stralunato, ma pur sempre facilmente assimilabile facendo di necessità virtù. L'abbandono di uno dei componenti della formazione originale è il motivo principale delle perplessità del trio rimanente che, a questo punto della storia, fa quadrato attorno a sé e sfrutta la tecnologia a disposizione per rielaborare idee e intuizioni. Simili nella sostanza a quanto proposto nel precedente ep LA STRADA, ma differenti nella forma, con la strumentazione elettronica a sopperire alla mancanza umana di Gabriele Mazza (ancora presente nella digressione onirica di Tu Mi Fai Vivere - nemesi della Svegliami fedele alla linea - e nel lamento anti-cantautoriale della trasognante e spostata Vorrei Vivere Con Poco). Il risultato finale è di difficile catalogazione, ma enigmaticamente seducente e catchy. Ossessivo come la smargiassa Exploding Plastic Inevitable, costruita su un riff elementare ripetuto ad libitum;  riflessivo come quando prende piede una deriva esistenzialista nell'immaginifico non-sense di Anche Se Qua Tutto Muore. Destinata a fare gli onori anche in casa altrui è però la melodica Laverò Le Rocce, con gli echi in reverse di un sergente Pepper A.D. 2014 e altre soluzioni tecniche in fase di arrangiamento per dare il segno di complessa disorganicità tematica. La bellezza di tutto questo marasma ordinato è data dal fatto che gli Indiana hanno il coraggio di sognare, di trasporre concretamente le proprie utopie e i propri deliri in forma compiuta senza dimenticare il gusto per la sperimentazione, ma senza nemmeno perdere di vista quello che ad altri livelli potremmo definire "gusto del pubblico". Non sarà semplice essere in un prossimo futuro chirurgicamente tranchant con le molte pulsioni che ora alimentano e spingono sempre verso lidi opposti la caravella pilotata da Marco Novali con il contributo fondamentale del tastierista Gabriele Mazza e della curiosità strumentistica del chitarrista Rajiv Olivato, ma prima o poi ciò dovrà necessariamente accadere. E saranno nuovi fuochi d'artificio per uno spettacolo pirotecnico senza precedenti. Il domani è ancora tutto da scrivere. ps: "Parlare di musica è come ballare di architettura"? Sono d'accordo.

sabato 29 novembre 2014

ASTEROIDI

ASTEROIDI
Alia
- Neverlab Dischi - 2014

27 marzo 2014. La prima volta che ascoltai live Alessandro Curcio, già ufficialmente presentato agli astanti di allora come Alia e intento anche a mia insaputa a presentare in anteprima alcuni estratti di questo esordio discografico successore dell'ep digitale ÀRIA, ero rimasto abbastanza indifferente di fronte alla proposta per sola chitarra e voce che si stava esibendo in quel momento sul palco. Anzi, con sufficienza avevo ipotizzato che sarebbe stato meglio trasferirmi al bar del locale in attesa dell'headliner della serata. Nulla di lui mia aveva colpito se non la curiosità di capire cosa mai di speciale potesse partorire e proporre di lì a qualche mese questo scricciolo di cantautore pop in compagnia dell'ex Amor Fou Giuliano Dottori, come era stato annunciato a fine esibizione. L'attesa ha fugato dubbi, sciolto remore e svelato l'arcano. ASTEROIDI è quanto di più lontano ci si poteva attendere dopo quella scarna prova in una notte di inizio primavera. Il suo ascolto rivela infatti una profondità d'animo delicatamente feroce, capace di far emergere una realtà interiore complessa, a tratti insicura e contradittoria, ma sempre lineare, sfruttando la quale Curcio non ha remore nel mettersi lentamente a nudo attraverso metafore e immagini tratte dal vissuto quotidiano, protetto in qualche modo dall'anonimato delle sette note, a fuoco e netto. Spariscono le indecisioni acustiche, supportate invece da una intelligente veste di moderno pop elettronico old style che non disdegna di farsi contaminare a seconda delle opportunità: si guadagna in incisività mentre sequenziale si fa il racconto delle proprie radici. Bouquet ad esempio, ci indirizza verso ambienti sonori ben noti agli amanti del Moltheni ultima maniera, ma lasciandosi pervadere da un senso di sospensione inusuale che attraversa l'ascoltatore mentre, in contemporanea, una storia d'amore tormentato si consuma e muore nella formalità di un matrimonio. Di contro, la Vesta Version, posta in coda al lavoro, con il giusto mix di synth e percussività elettroniche mostra l'ottimo lavoro fatto in sala di incisione, con quell'ammiccante riff di chitarra funky e la dilatazione dell'assolo rock in stile Roger Nelson che nella struttura del pezzo omaggia addirittura i Queen del tanto bistrattato HOT SPACE. Se il dinamismo non è comunque la cifra stilistica del cd sarà ugualmente difficile non arrendersi di fronte alla scattante Case Di Ringhiera che con la sua descrittività nostalgica di un passato vissuto solo di striscio impone una riflessione sull'incomunicabilità delle nostre presunte certezze con il mondo esterno e confessa l'anima reale di tutto il lavoro. Con gli Erasure nel cuore, la title track Asteroidi riprende esattamente dal punto in cui Alan Sorrenti con i suoi figli delle stelle aveva svoltato, ma facendo tesoro dell'esperienza mistica del Battiato "fisiognomico" di metà anni '80, abitante mondi lontanissimi, nascosti da quell'ombra della luce che Verso Il Centro rivela. A proposito di incanto, è piacevole ritrovare Raffaella Destefano nell'ode felina Cats, graffiante l'anima nella stessa misura in cui le impronte dei nostri amici a quattro zampe sanno lasciare il segno sul cuore, elogio di una intimità casalinga non immune da difficoltà relazionali, mentre in Goldie Hawn è netto il tocco di Cesare Malfatti che qui si ritaglia un cameo alla chitarra. C'è spazio per la non sempre facile coesistenza fra solitudine e fede, quando una delle due estremizza la propria posizione (Musa), e si indaga con serenità il tema dell’omosessualità (l'importante Corteccia). Che bellezza poter cambiare opinione e ammettere di avere sbagliato!? Sì, perché Curcio con il suo leggero dream pop cantautorale ha saputo scardinare le impressioni della nostra prima volta e ha aperto nuove porte di ascolto come fa quell'onda sonora che nel silenzio si propaga, misteriosa, attraverso il vuoto cosmico di Keplero.

venerdì 28 novembre 2014

RADICI

RADICI
Francobeat
- Brutture Moderne - 2014

È un nuovo orizzonte di bellezza altra quello contemplato dal flusso disordinato di pensieri e racconti generati, raccolti e donato ai posteri da RADICI. Il suggestivo progetto musicale patrocinato dall'intervento di un inizialmente disorientato Franco Naddei, figura di spicco per tutto il circuito musicale romagnolo, nasce in realtà dalla folle intuizione di Elisa Zerbini, educatrice presso la residenza per disabili mentali "Le Radici" di San Savino, piccolo borgo malatestiano sulle colline riminesi non troppo distante da San Marino. Dopo aver colto il potenziale espressivo e immaginifico espresso con una naturalezza fuori dal comune dagli ospiti della struttura in cui lavora, la giovane operatrice approccia il lungimirante musicista e propone una collaborazione che sia in grado di coniugare passione e spontaneità, meraviglia e stupore. "Avevo di fronte un patrimonio poetico da cui volevo essere invaso - racconta Naddei - Volevo mettermi in bocca quelle parole, quelle immagini surreali, taglienti, amaramente gioiose, scritte da gente pronta a barattare in qualsiasi momento una strofa felice per una sigaretta." Concetti, ragionamenti, discorsi che hanno il loro caleidoscopico senso d'essere nella continua rifrazione imposta dalla malattia mentale. Una esposizione che da semplice flusso costante diventa poi motore unico di mondi apparentemente solitari, chiusi e finiti in sé, risoluti come un punto, ma che all'improvviso deviano ed entrano in contatto fra loro, spesso cozzando l'un l'altro, fino a sprigionare una energia complessa e affascinante nella sua irripetibilità. Stimolo e terapia. Mai distanza. Laddove poi il linguaggio si rivela insufficiente per esprimere un campo della vita mentale che esula dalle potenzialità della parola ecco intervenire proprio la musica; sia essa il folk sghembo di Belluno oppure il cantautorato fiabesco de Il Principe E La Donzella che non disdegna incursioni nelle cantilenanti filastrock-e esistenziali esemplificate dall'intensità agrodolce di Io Ero Bellissima. Attraverso la sua peculiare capacità di esprimere l'inafferrabile essa supera la difficoltà della differenza, annulla i muri di silenzio e rivela l'insondabile. Una prerogativa che mette i brividi quando indirizzata verso la lucidità sgangherata di Pillole; che non è scostante disagio, ma specchio di una condizione umana talmente chiara e trasparente da risultare radicalmente espressiva e unica nella sua purezza priva di sovrastrutture e maschere. Così, se per noi Le Mie Meraviglie risultano essere anomalie dell'esistenza per gli ospiti sono il carburante essenziale da cui trarre naturale energia vitale tanto per la mente quanto per il corpo. E allora per una volta il mondo cambia marcia, va al rovescio, si capovolge e gira al contrario mentre gli ultimi davvero diventano primi e si assaporano piccole gioie quotidiane nei ritmi da disco-balera di È Bella La Pioggia. Un universo in cui Francobeat si è immerso candidamente: non più Piccolo Principe esploratore, ma essere umano inter pares, diverso fra i diversi, uguale fra gli uguali. Nel disarmante brain storming di irrazionale logicità creativa, reminiscenza di quella temporalità che esiste solo per chi non ha ricordi.

giovedì 27 novembre 2014

PIETRAIA

PIETRAIA
Kabikoff
- Sinusite Records - 2014

Qui ci sono sette anni di pura energia repressa, lasciata pericolosamente (e volutamente) fermentare nel corso di una attesa troppo lunga. Poche storie: per quanto ci riguarda PIETRAIA è l'ultimo grande album di inediti targato 2014. In Italia e all'estero. Il corrosivo crossover dalle mille sfaccettature che già come Museo Kabikoff la band del tenace Alberto N.A. Turra - unico sopravvissuto della line up originale - aveva proposto grazie alla camaleontica performer Chiara Castelli, è mutato una volta ancora. In primis, Kia non fa più parte della partita dopo aver deciso di percorrere altre strade musicali legate a un suono profondamente elettronico, ma pur sempre umanamente sostenibile, in cui l'analogico si sposa alla perfezione con l'ingegnosità sua e del polistrumentista Kole Laca; seconda di poi, l'ingresso in pianta stabile del nuovo cantante Kino Deregibus ha contribuito a irrobustire - se mai ce ne fosse stato bisogno - l'attitudine in your face da sempre peculiarità del combo milanese. Una vena hardcore capace di iniettare nella proposta musicale della band, sempre almeno due passi avanti rispetto alle mode del momento, un dinamismo e una rabbiosa potenza dinamitarda abili nello sgretolare e mandare in frantumi ogni certezza fino ad oggi accumulata. Una sassata violentissima in piena fronte, capace di farci sanguinare copiosamente. E di lasciarci una cicatrice perenne; monito e avvertimento. Una esistenza quella dei Kabikoff che è valvola di sfogo per il talento del già citato Turra e dell'affiatata sezione ritmica composta da William Nicastro (Rezophonic, Max Zanotti) e Sergio Quagliarella (Mamud Band); una entità compatta, come un pugno chiuso, in grado di archiviare difficoltà personali e nascondere miserie esterne, abile nell'approcciarsi a un melting rock meticcio e aggressivo al punto giusto. Ci pensa Pupilla a rendere evidente tutto quanto, nella sua scattante e muscolare guerra di nervi che ci salva dall'abisso dell'appiattimento culturale insinuatosi fra la gente. Si ridefiniscono i contorni, quasi fosse un nuovo entusiasmante esordio, con un approccio strumentale eloquente, enfatizzato dall'irruenza di Kino, "controllatamente" allo sbando, controversa e salvifica. Fobie (Polpa), incubi (inQura), ansie, angosce: non mancano motivi per sprigionare una energia esplosiva proveniente direttamente dai bassifondi della società, ma più ancora da quelli dell'anima. La visceralità -core che a suon di metal, funk, prog, punk e molto altro ancora si fa largo tra le nove canzoni di PIETRAIA manifesta un disagio e una verve ugualmente simbiotiche, efficaci per far emergere in tutta la sua prorompente e spigolosa espressività l'insofferenza posta come condizione sine qua non per far compiere al rock la sua missione primaria: quella di agitare e scuotere le coscienze. Una lezione difficile da portare a termine, che non necessariamente i grandi, ma solo chi ci crede davvero è in grado di realizzare nel miglior modo possibile; un compito non meritevole di restare chiuso in un museo, ma che chiede piuttosto di essere affrancato da dogmi e sicurezze, dando il là ad una forma d'arte che non è celebrazione, ma vita. Anzi, che è celebrazione di vita. Insomma Kabikoff, bentornati!

lunedì 24 novembre 2014

ALL IMPOSSIBLE WORLDS

ALL IMPOSSIBLE WORLDS
HysM?Duo
- Wallace Records/Neon Paralleli/Il Verso del Cinghiale/Only Fucking 
Noise/Hysm?/Eclectic Polpo/Kaspar House Studio/Ashame/Qsqdr/Dente di Sega/Lemming Records - 2014

Ci accoglie con una distorsione l' HaveyousaidMidi?Duo che vede una volta ancora come protagonisti Stefano Spataro e Jacopo Fiore, coadiuvati qua e là per l'occasione da una manciata di improvvisati (poteva essere altrimenti?) ospiti sopraggiunti nello studiolo perugino di Ferdinando Farro per rifinire il loro sesto lavoro in studio. Saldamente al timone di comando per questa nuova avventura i bislacchi marinai del suono, autori di psichedelici esperimenti sonori avant-garde come RUMOR VINCIT OMNIA e il più recente e accessibile SCIENCE IN ACTION, si trovano oggi a solcare i mari sconfinati del rock meno convenzionale alla ricerca di nuovi mondi da colonizzare. Che non ci sia una vera e propria direzione unitaria lo si capisce dai continui cambi di rotta che, al solito, caratterizzano i brani contenuti anche in questo vinile, promosso da uno scatto in bianco e nero di Valentina Vagnetti, in arte VACVO. A differenziarsi dai precedenti album ci pensa tuttavia una sorprendente e nuova tendenza alla progressione costruita a suon di percussioni ed elettricità, priva di reali schemi compositivi, ma che, tentata la carta dell'evoluzione sonora, chiede - trovandoli - sostegno e aiuto nella messa a fuoco di idee e stimoli creativi. Una seconda, reale, concreta linearità riconducibile poi a ALL IMPOSSIBLE WORLDS è ravvisabile nel concept di fondo teorizzato e approfondito in musica dal duo tarantino. La ricerca personale, la conoscenza, il mutamento dell'esistenza, il linguaggio: sono queste le tematiche alla base di episodi sequenziali che vanno dalla camaleontica Leviathan Vs Predator alla conclusiva Death & Dreams passando per la composita I Want To Hug Everything su cui compaiono i sax incrociati dello Squarci(aci)catrici Andrea Caprara e di Francesco Li Puma, reclutato direttamente dagli improvvisatori collettivi Atomic Clocks. Eppure il raccordo lirico che al solito compare e viene generalmente sviscerato dalle migliori rock band mondiali attraverso suite musicali o testi fra loro concatenati, qua viene sì sfruttato nei titoli degli episodi che compongono il platter, ma solo accennato, fugacemente e quasi di nascosto, nelle poche parole, centellinate e minimali, proposte dagli HysM?. La decisione di affidarsi al potere immaginifico dei loro brani per liberare le emozioni da essi stessi prodotte e suscitate è sicuramente una scelta da un lato logica e ragionata, che libera da un ruolo ancora non richiesto di "frontman" i due musicisti; dall'altro spontanea e naturale, capace di rendere protagonista l'ascoltatore, inaspettato terzo incomodo della narrazione. È dunque possibile combinare l'approccio creativo dell'uomo con l'inesorabile andamento della natura? Nelle intenzioni tutto è ragionevolmente plausibile e ortodosso, ma non basteranno quaranta minuti di fiero avant-rock ad esaurire l'argomento. Forse non basteranno neppure una, cento, mille, infinite vite per farlo; meglio allora guardare al presente, credere in una parte di bugie e rapportarsi al mondo per quello che è. O per quello che crediamo sia. Sempre che mai qualcuno ce l'abbia richiesto.  

mercoledì 19 novembre 2014

LE STANZE - EP

LE STANZE - EP
Distinto
- autoprodotto - 2014
 
Quattro tracce per indicare la via che conduce ad un maturo eppure sbarazzino cantautorato realizzato con una naturalezza che conquista fin dal primo ascolto, senza alcun timore reverenziale verso i big della canzone. Così si presentano i Distinto, originariamente duo di cantastorie dei giorni nostri allargatosi in occasione della registrazione de LE STANZE a trio grazie all'ingresso in organico di Paolo Perego alla batteria. Dopo aver appurato la bontà del loro operato non è ben chiaro perché Daniela D'Angelo e Daniele Ferrazzi si siano limitati a rilasciare soltanto un ep di quattro brani anziché dare un seguito più corposo al disco d'esordio IN GENERE; certo, le logiche della promozione avranno consigliato in tal senso e così facendo si sarà stuzzicata la curiosità dell'ascoltatore, ma è pur vero che l'appetito vien mangiando e quando le portate sono delicate e saporite insieme se ne vorrebbe ancora un po'. Subito. Melodie ariose, contrappunti chitarristici, una buona predisposizione alla narrativa: tutti elementi chiave per realizzare un abbozzo di sognante intimità e di ridefinizione della propria essenza in cui il percorso spesso faticoso della vita di ognuno entra di diritto nel novero degli insegnamenti che diventeranno universali, capaci cioè di integrare ciò che è noto con quanto è sconosciuto e lontano. Un'esperienza che riguarda ciascuno di noi e che i Distinto, attraverso una naturale predisposizione al confronto con l'altro, hanno saputo fissare nelle loro canzoni, declinando una sostanziale "universalità" del singolo nelle reciprocità che emergono e trovano così massima espressione proprio nei momenti di incontro e condivisione con il prossimo, unendo una sorta di esperienza formativa al divertimento e al coinvolgimento che la musica offre. A voler cercare nuove e ulteriori indicazioni nella rivelatoria immagine di copertina dell'ep potremmo tranquillamente pensare a queste quattro canzoni come alle fondamenta di una casa in costruzione, progettata tenendo conto delle proprie singole esigenze, ma anche di una più ampia e sinergica funzionalità univoca; ognuno ha il proprio spazio vitale, ma a sua volta questo è in aperta correlazione al suo altro speculare da cui dipende e a cui è indissolubilmente legato con tutti i benefici che ciò comporta. Ecco perciò come il monito a reagire e a non fermarsi di Camminare non solo non stona affatto dinanzi all'aperta critica votata all'ironia nei confronti di un "gettonatissimo" casco d'oro protagonista suo malgrado in Santa Caterina, ma addirittura ne rilancia con verve i punti salienti; così come il necessario fluire del tempo e della vita di Settembre si intona con il dialogo interiore brillantemente affrontato nella malinconica Meglio senza mai perdere di intensità, risultando idealmente vicina a chiunque sembra reggere a fatica l'offerta della vita. Daniela e Daniele hanno ora in mano i mattoni successivi per il completamento dei piani superiori e tutte quelle decorazioni essenziali affinché la costruzione proceda secondo tempi e ritmi prestabiliti, ma soprattutto affinché risulti funzionale e dignitosamente vivibile; in accordo con le unità abitative che li circondano e alla propria idea di collettività. In altre parole è la città che cresce. E loro con lei.     

martedì 18 novembre 2014

PIENA

PIENA
Tommaso Tanzini
Stop Making Sensible Records - 2014

Ore 10:30 del mattino di una giornata novembrina. Il freddo è particolarmente pungente oggi. La brina imperla ancora la monovolume nella corte mentre la strada digrada leggera verso la pianura, curva dopo curva. Hanno detto che c'è stata l'alluvione giù da basso. Qui siamo stati dei miracolati a sentire quanto raccontano riguardo ciò che è avvenuto tra Firenze e Pontedera. Ma anche il Casentino e la Maremma con Grosseto in testa non se la passano affatto bene. Ci sono state vittime in numero imprecisato. Hanno visto decine, centinaia di volontari scendere nelle strade per dare una mano e due braccia al fine di mettere in salvo il recuperabile e recuperare il salvabile. Li hanno chiamati angeli del fango; sono in prevalenza giovani, liceali e universitari, mobilitatisi per una causa comune che non ha né colore né bandiera. Sono in tanti; operativi lì, in quell'autunno del 1966, testa china e fiato corto. Faticano per liberare dall'acqua abitazioni e palazzi mentre il fango solidifica nei campi e incrosta strade, libri, vite. Come quella di Tommaso Tanzini, giovane pisano classe 1986 che di quel disastro idrogeologico consumatosi quattro lustri prima il suo concepimento non fu testimone diretto e nemmeno conseguenza consolatoria. Eppure nel suo esordio discografico, dopo l'esperienza chiusa anzitempo con i Criminal Jokers e quella sempre attiva con l'orchestra afro-beat Sonalastrana, c'è la stessa precarietà delle cose emersa prepotentemente dalle acque dell'Arno, per una volta causa di lutti e non più custode di storia. PIENA è il disco di un'anima inquieta infatti, dove l'ascolto e la composizione di ogni singola musica non hanno nulla a che spartire con la velocità di questi anni di consumistica liquidità artistica. È il rifugio per i propri pensieri e lo zibaldone di visioni personalissime sulla realtà che li circonda nonché sul proprio io in cui trovano fertile terreno decine di sollecitazioni e impulsi. Anche quando indolentemente invase da frustrazioni e pigrizie militanti. Lo testimoniano già le prime note de L'Immagine, opener in cui la distorsione di una fede testimoniata male dal suo ministro e interpretata anche peggio spalanca le porte del proprio mondo senza mai inventare spazi nuovi, ma semplicemente occupando quelli preesistenti. Che poi - a ben guardare - il tutto non si conclude in un semplice e improduttivo ripiegamento interiore; la ricerca di dialogo, la tensione allo scambio reciproco, lo sguardo rivolto all'esterno sono infatti una costante che si ripresenta lungo tutto il percorso sonoro tracciato dall'album e non solo nella successiva La Tua Tranquillità, sintomo evidente di una urgenza viva e in continuo movimento che, come un fiume per l'appunto in piena, inarrestabile e travolgente, ricerca uno sbocco naturale dove riversare tutta la propria energia. Un diario di bordo che si identifica perciò in un faticoso percorso umano scandito a più riprese da molte mirate parole e pochi funzionali suoni elettroacustici, motivo di sospensione e riflessiva poetica. Una educazione sentimentale in ultima analisi, che rifugge la solitudine, esorcizza il dolore e fissa una rarefatta immagine di sé, incerta, ma volenterosa storia di insondabile malinconia in cui specchiarsi.