martedì 13 maggio 2014

WARSAW

WARSAW
The Gluts
- autoproduzione - 2014

Poi ci sono quelle band che fin dai primi ascolti su disco ti incuriosiscono a tal punto da volerle vedere dal vivo al più presto, per toccare con mano quanto di buono hai già potuto apprezzare dal cd selezionato nel lettore o, come in questo caso, direttamente dai solchi di un vinile. E sono quelle stesse realtà capaci di investirti (e "spettinarti") con un'onda d'urto roboante e fragorosa che resta impressa nella memoria per giorni ogniqualvolta ci si appropinqua sotto al loro stage. I The Gluts rientrano senz'altro in queste categorie emozionali, forti di un album d'esordio come WARSAW già maturo nei suoni e nella produzione a dispetto della giovane età dei suoi esecutori. Sul palco il quartetto milanese dal cuore new wave nero pece accentua, se possibile, l'irruenza sonora che il noise rock di brani come Please Be Patient With Your Dad (i primi Soundgarden centrifugati dagli A Place To Bury Strangers) e Don't Tease Me Please va a caratterizzare la loro energica proposta. Al pari dell'affascinante Claudia Cesana al basso (notevole il suo lavoro su Iceman) Nicolò Campana, bizzarro anello di congiunzione fra Ian Curtis e Billy Corgan, catalizza l'attenzione su di sé attraverso una convincente performance che ne esplicita i propri demoni personali, presto esorcizzati, evidenziando allo stesso tempo una tenuta a sette polmoni continuamente sollecitata e messa a dura prova dalla compattezza strumentale dei The Gluts, oggi cementata dall'innesto di Mattia Toselli, new entry alla batteria per tutto il tour in corso. Il continuo ricorso all'effettistica più appropriata è poi appannaggio di Marco Campana, stratega sonoro e figura chiave della band, in ultima analisi responsabile con le sue chitarre di quel suono volutamente saturo e lancinante capace di fendere vorticosamente l'aria e direzionare le forze centripete generate; siano esse di chiara matrice dark (Rag Doll) oppure maggiormente claustrofobiche (Vietnam). Eppure c'è una terza componente non meno importante che affiora decisa. È quella "psichedelicamente" shoegaze che si esprime nei ritmi rapidi e nelle dilatazioni strumentali su cui si innestano improvvisazioni situazionistiche solo in parte codificate dalle giornate trascorse in sala prove. È la parte più sperimentale di una giovane band conscia delle proprie potenzialità, slegata dalle facili sirene dell'ormai sempre più obsoleto indie rock e forse proprio per questo sorprendentemente briosa e solare; quadrata, ma multiforme, senza un target definito, ricettiva e aperta a differenti soluzioni. Desiderosa di esserci per il gusto cameratesco di esserci. In questo modo prendono forma composizioni tex-punk come la vibrante Bad Man, posta in chiusura di lato A, l'heavy abrasivo di Enemies e l'ipnotica ninna nanna stratificata Don't Believe In Fairy Tales completata un po' a sorpresa da un racconto scritto di proprio pugno direttamente dalla band, omaggio agli acquirenti di ogni singola copia vinilica di questo debutto. Quaranta minuti che scorrono veloci e indicano la strada da percorrere. Nuove lacrime di inchiostro sui nostri (e loro) visi. Un motivo in più per guardare alle proposte di casa nostra senza lasciarsi sedurre una volta ancora dall'iper-fertilizzata erba del vicino.
 
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